Satira IV
A Messer Sismondo Malegucio Il vigesimo giorno di febraio
chiude oggi l’anno che da questi monti,
che dànno a’ Toschi il vento di rovaio,
qui scesi, dove da diversi fonti
con eterno rumor confondon l’acque
la Tùrrita col Serchio fra duo ponti;
per custodir, come al signor mio piacque,
il gregge grafagnin, che a lui ricorso
ebbe, tosto che a Roma il Leon giacque;
che spaventato e messo in fuga e morso
gli l’avea dianzi, e l’avria mal condotto
se non venia dal ciel iusto soccorso.
E questo in tanto tempo è il primo motto
ch’io fo alle dee che guardano la pianta
de le cui frondi io fui già così giotto.
La novità del loco è stata tanta
c’ho fatto come augel che muta gabbia,
che molti giorni resta che non canta.
Maleguzzo cugin, che tacciuto abbia
non ti maravigliar, ma maraviglia
abbi che morto io non sia ormai di rabbia
vedendomi lontan cento e più miglia,
e da neve, alpe, selve e fiumi escluso
da chi tien del mio cor sola la briglia.
Con altre cause e più degne mi escuso
con gli altri amici, a dirti il ver; ma teco
liberamente il mio peccato accuso.
Altri a chi lo dicessi, un occhio bieco
mi volgerebbe a dosso, e un muso stretto:
— Guata poco cervel! — poi diria seco
— degno uom da chi esser debbia un popul retto,
uom che poco lontan da cinquanta anni
vaneggi nei pensier di giovinetto! —
E direbbe il Vangel di san Giovanni;
che, se ben erro, pur non son sì losco
che ‘l mio error non conosca e ch’io nol danni.
Ma che giova s’io ‘l danno e s’io ‘l conosco,
se non ci posso riparar, né truovi
rimedio alcun che spenga questo tòsco?
Tu forte e saggio, che a tua posta muovi
questi affetti da te, che in noi, nascendo,
natura affige con sì saldi chiovi!
Fisse in me questo, e forse non sì orrendo
come in alcun c’ha di me tanta cura
chi non può tolerar ch’io non mi emendo;
e fa come io so alcun, che dice e giura
che quello e questo è becco, e quanto lungo
sia il cimer del suo capo non misura.
Io non uccido, io non percuoto o pungo,
io non do noia altrui, se ben mi dolgo
che da chi meco è sempre io mi dilungo:
perciò non dico né a difender tolgo
che non sia fallo il mio; ma non sì grave
che di via più non me perdoni il volgo.
Con manco ranno il volgo, non che lave
maggior macchia di questa, ma sovente
titolo al vizio di virtù dato have.
Ermilian sì del dannaio ardente
come d’Alessio il Gianfa, e che lo brama
ogni ora, in ogni loco, da ogni gente,
né amico né fratel né se stesso ama:
uomo d’industria, uomo di grande ingegno,
di gran governo e gran valor si chiama.
Gonfia Rinieri, et ha il suo grado a sdegno;
esser gli par quel che non è, e più inanzi
che in tre salti ir non può si mette il segno.
Non vuol che in ben vestire altro lo avanzi;
spenditor, scalco, falconiero, cuoco,
vuol chi lo scalzi, chi gli tagli inanzi.
Oggi uno e diman vende un altro loco;
quel che in molti anni acquistar gli avi e i patri
getta a man piene, e non a poco a poco.
Costui non è chi morda o che gli latri,
ma liberal, magnanimo si noma
fra li volgar giudici oscuri et atri.
Solonnio di facende sì gran soma
tolle a portar, che ne saria già morto
il più forte somier che vada a Roma.
Tu ‘l vedi in Banchi, alla dogana, al porto,
in Camera apostolica, in Castello,
da un ponte all’altro a un volgier d’occhi sorto.
Si stilla notte e dì sempre il cervello,
come al Papa ognor dia freschi guadagni
con novi dazii e multe e con balzello.
Gode fargli saper che se ne lagni
e dica ognun che all’util del padrone
non riguardi parenti né compagni.
Il popul l’odia, et ha di odiar ragione,
se di ogni mal che la città flagella
gli è ver ch’egli sia il capo e la cagione.
E pur grande e magnifico se appella,
né senza prima discoprirsi il capo
il nobile o il plebeo mai gli favella.
Laurin si fa de la sua patria capo,
et in privato il publico converte;
tre ne confina, a sei ne taglia il capo;
comincia volpe, indi con forze aperte
escie leon, poi c’ha ‘l popul sedutto
con licenze, con doni e con offerte:
l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto
li buoni, acquista titolo di saggio,
di furti, stupri e d’omicidi brutto.
Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio,
né sa da colpa a colpa scerner l’orbo
giudizio, a cui non mostra il sol mai raggio;
e stima il corbo cigno e il cigno corbo;
se sentisse ch’io amassi, faria un viso
come mordesse allora allora un sorbo.
Dica ogniun come vuole, e siagli aviso
quel che gli par: in somma ti confesso
che qui perduto ho il canto, il gioco, il riso.
Questa è la prima; ma molt’altre appresso
e molt’altre ragion posso allegarte,
che da le dee m’ha tolto di Parmesso.
Già mi fur dolci inviti a empir le carte
li luoghi ameni di che il nostro Reggio,
il natio nido mio, n’ha la sua parte.
Il tuo Maurician sempre vagheggio,
la bella stanza, il Rodano vicino,
da le Naiade amato ombroso seggio,
il lucido vivaio onde il giardino
si cinge intorno, il fresco rio che corre,
rigando l’erbe, ove poi fa il molino;
non mi si può de la memoria tòrre
le vigne e i solchi del fecondo Iaco,
la valle e il colle e la ben posta tórre.
Cercando or questo et or quel loco opaco,
quivi in più d’una lingua e in più d’un stile
rivi traea sin dal gorgoneo laco.
Erano allora gli anni miei fra aprile
e maggio belli, ch’or l’ottobre dietro
si lasciano, e non pur luglio e sestile.
Ma né d’Ascra potrian né di Libetro
l’amene valli, senza il cor sereno,
far da me uscir iocunda rima o metro.
Dove altro albergo era di questo meno
conveniente a i sacri studi, vuoto
d’ogni iocundità, d’ogni orror pieno?
La nuda Pania tra l’Aurora e il Noto,
da l’altre parti il giogo mi circonda
che fa d’un Pellegrin la gloria noto.
Questa è una fossa, ove abito, profonda,
donde non muovo piè senza salire
del silvoso Apennin la fiera sponda.
O stiami in Rocca o voglio all’aria uscire,
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidii, odi, vendette et ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
altri condanni, altri ne mandi assolto;
ch’ogni dì scriva et empia fogli e spacci,
al Duca or per consiglio or per aiuto,
sì che i ladron, c’ho d’ogni intorno, scacci.
Déi saper la licenzia in che è venuto
questo paese, poi che la Pantera,
indi il Leon l’ha fra gli artigli avuto.
Qui vanno li assassini in sì gran schiera
ch’un’altra, che per prenderli ci è posta,
non osa trar del sacco la bandiera.
Saggio chi dal Castel poco si scosta!
Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna
secondo ch’io vorrei mai la risposta.
Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
da la sedizion che ci soggiorna.
Vedi or se Appollo, quando io ce lo invite,
vorrà venir, lasciando Delfo e Cinto,
in queste grotte a sentir sempre lite.
Dimandar mi potreste chi m’ha spinto
dai dolci studi e compagnia sì cara
in questo rincrescevol labirinto.
Tu déi saper che la mia voglia avara
unqua non fu, ch’io solea star contento
di quel stipendio che traea a Ferrara;
ma non sai forse come uscì poi lento,
succedendo la guerra, e come volse
il Duca che restasse in tutto spento.
Fin che quella durò, non me ne dolse;
mi dolse di veder che poi la mano
chiusa restò, ch’ogni timor si sciolse.
Tanto più che l’ufficio di Melano,
poi che le leggi ivi tacean fra l’armi,
bramar gli affitti suoi mi facea invano.
Ricorsi al Duca: — O voi, signor, levarmi
dovete di bisogno, o non vi incresca
ch’io vada altra pastura a procacciarmi. —
Grafagnini in quel tempo, essendo fresca
la lor rivoluzion, che spinto fuori
avean Marzocco a procacciar d’altra ésca,
con lettere frequenti e imbasciatori
replicavano al Duca, e facean fretta
d’aver lor capi e lor usati onori.
Fu di me fatta una improvisa eletta,
o forse perché il termine era breve
di consigliar chi pel miglior si metta,
o pur fu appresso il mio signor più leve
il bisogno de’ sudditi che il mio,
di ch’obligo gli ho quanto se gli deve.
Obligo gli ho del buon voler, più ch’io
mi contenti del dono, il quale è grande,
ma non molto conforme al mio desio.
Or se di me a questi omini dimande,
potrian dir che bisogno era di asprezza,
non di clemenzia, all’opre lor nefande.
Come né in me, così né contentezza
è forse in lor; io per me son quel gallo
che la gemma ha trovata e non l’apprezza.
Son come il Veneziano, a cui il cavallo
di Mauritania in eccellenzia buono
donato fu dal re di Portogallo;
il qual, per aggradir il real dono,
non discernendo che mistier diversi
volger temoni e regger briglie sono,
sopra vi salse, e cominciò a tenersi
con mani al legno e co’sproni ala pancia:
— Non vuò — seco dicea — che tu mi versi. —
Sente il cavallo pungersi, e si lancia;
e ‘l buon nocchier più allora preme e stringe
lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia,
e di sangue la bocca e il fren gli tinge:
non sa il cavallo a chi ubedire, o a questo
che ‘l torna indietro, o a quel che l’urta e spinge;
pur se ne sbriga in pochi salti presto.
Rimane in terra il cavallier col fianco,
co la spalla e col capo rotto e pesto.
Tutto di polve e di paura bianco
si levò al fin, dal re mal satisfatto,
e lungamente poi si ne dolse anco.
Meglio avrebbe egli, et io meglio avrei fatto,
egli il ben del cavallo, io del paese,
a dir: — O re, o signor, non ci sono atto;
sie pur a un altro di tal don cortese. —
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